Siamo sempre stanchi

Pubblicato il 1 aprile 2025 alle ore 13:00

Perché siamo sempre stanchi anche quando non facciamo nulla?

C’è una stanchezza nuova, sottile, che non assomiglia a quella fisica di un tempo.
È quella che sentiamo anche quando siamo fermi, seduti, in silenzio.
Anzi, a volte è proprio allora che la percepiamo di più.

Siamo sempre stanchi, anche quando non facciamo nulla.
E la cosa più inquietante è che, spesso, non capiamo bene perché.

Scrolliamo. Leggiamo notizie. Ascoltiamo podcast. Rispondiamo a messaggi. Cambiamo idea tre volte in mezz’ora.
Nel frattempo pensiamo a cosa cucinare, a cosa manca nel frigo, a cosa dobbiamo fare domani.
Non stiamo correndo, ma non ci stiamo nemmeno riposando.

Viviamo in una condizione mentale perennemente accesa.
Un sottofondo continuo di input, notifiche, aggiornamenti, decisioni minime da prendere, messaggi a cui rispondere, stimoli da elaborare.
Non c’è mai vero silenzio. E anche quando c’è, facciamo fatica a sopportarlo.

Il problema non è solo quello che facciamo, ma tutto quello che potremmo fare.
Viviamo immersi in possibilità infinite: contenuti, idee, alternative.
E questo genera un rumore di fondo che non ci lascia mai davvero.
Anche nei momenti “vuoti”, il nostro cervello continua a lavorare in background.
Confronta, valuta, anticipa. Non si ferma mai.

Abbiamo scambiato la disponibilità costante con la presenza.
L’accesso continuo con l’intimità.
L’essere aggiornati con l’essere vivi.

E invece siamo solo saturi. Mentalmente saturi.

Una volta, la stanchezza era legata al corpo.
Oggi è una stanchezza mentale che si incolla addosso.
E non basta dormire.
Perché se vai a letto dopo aver guardato video, risposto a chat, pensato a mille cose… il sonno non basta.
Serve svuotare. Spegnere.
Ma spegnere è difficile, perché viviamo con l’ansia di perdere qualcosa.

Non siamo stanchi. Siamo sovraccarichi.
Ed è una differenza enorme.

Non serve fare meno. Serve sentire meno cose insieme.
Serve riconoscere che non è sano né normale essere sempre “disponibili”, sempre “stimolati”, sempre connessi a qualcosa.
Il cervello ha bisogno di noia. Il cuore ha bisogno di pause.
E l’identità ha bisogno di spazi non riempiti.

Forse dovremmo riabituarci a non fare nulla per davvero.
A lasciare la mente in pace. A camminare senza cuffie. A guardare fuori da un finestrino. A cucinare in silenzio.
Non per essere più produttivi dopo. Ma per essere più umani adesso.

Perché la vera stanchezza non viene da ciò che facciamo.
Viene da ciò che non smettiamo mai di pensare.

A volte, lo confesso, sogno di mollare tutto per una settimana e andare in un monastero.
Non per ritrovare me stessa — ci siamo già incontrate mille volte, io e me — ma per provare la fatica vera. Quella concreta, fisica, che ti svuota la testa mentre riempi una cesta di verdure o spazzi un cortile.
Niente telefono, niente notifiche, niente multitasking: solo ora et labora con vista su un orto.
Mi immagino lì, con una tuta da lavoro, un ritmo lento e il pensiero più complesso della giornata che sia: “Meglio bietole o zucchine?”

Non è una crisi esistenziale. È solo che, ogni tanto, ho voglia di sentire la soddisfazione di qualcosa che si tocca.
Di finire qualcosa e vedere il risultato, lì davanti, senza bisogno di condividerlo o analizzarlo.
Un po’ di fatica onesta. Di quella che ti stanca sul serio, ma ti fa dormire bene.
E magari, chissà, anche un pane buono fatto con le mie mani.
Che non sarà una carriera brillante, ma almeno ha un profumo.

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